Andare a l'Aquila, non è mai stata un'esperienza banale e scontata: una certa cupezza di fondo, il fatto di essere la città più fredda d'Italia, l'asprezza del paesaggio che la circonda.
L'arrivarci adesso, però, in un giorno dell'agosto 2011, è un'esperienza quantomai utile per capire l'Italia di oggi: che a rischio sismico è sempre stata (ed a rischio ruberie, lo stesso), ma forse non è mai stata così a rischio sfiducia.
Dopo la seconda guerra mondiale, buona parte dell'Italia era come l'Aquila adesso: ma un ottimismo, verace e pugnace al tempo stesso, pervadeva l'animo degli italiani, o almeno della loro maggioranza. Parlare con gli aquilani, oggi: questo è ciò che crea sconforto. Ho parlato con un vigile urbano loquacissimo, con un giornalista di una radio locale, con uno studente di 26 anni, con il giovane gestore di un Google point in pieno centro, e con altri ancora. Da nessuno di loro (e se dico nessuno, vuol dire davvero nessuno) ho avuto mezza parola di ottimismo, di speranza per il futuro, prossimo o remoto che fosse.
Uno dei paradossi beffardi della città, è il suo motto: "Immota manet". Credo, spero formulato a guisa di augurio...
Nessuno crede che il centro storico aquilano verrà ricostruito sul serio: a volare bassi, l'80% delle attività sono morte; resiste qualche bar e ristorante, per la movida tra i relitti che la sera e la notte anima la parte della zona rossa ora penetrabile. Oltre a questo, un negozio di abbigliamento intimo, e pochissimo più. Tutto il resto, muri derelitti, resti di una città come sventrata da bombardamenti.
Trovo alloggio in un albergo, completamente ricostruito dopo il sisma del 6 aprile del 2009: sa di nuovo, il parquet per terra, gli infissi lucidi. Tutto è ben tenuto. Ma è un albergo particolare, come tutto in loco: non ci sono solo turisti, ci vivono anche non pochi anziani, ancora impossibilitati a tornare a casa, evidentemente. Un po' albergo, un po' ospizio, dunque. Apro la finestra della camera, e mi trovo davanti brandelli di muro, dall'altra parte della strada. Esco dall'albergo, prendo la destra, e, dopo trenta-quaranta metri di salita dolce, mi trovo davanti gli alpini a sbarrarmi la strada:
"Ci dispiace - dicono gentilissimi -, questa parte non è accessibile. Lo facciamo per proteggere le case dagli sciacalli!".
L'Aquila è una città militarizzata, come credo nessun'altra nella penisola. I nemici da combattere, però, chi sono?
Dopo due anni e mezzo dal sisma, girano ancora gli sciacalli? C'è ancora da rubare, nelle case rimaste in piedi? Possibile che gli aquilani lì residenti non abbiano portato via le cose di valore, in tutto questo tempo? E ancora, una domanda che mi ronza in testa: sono proprio necessari tutti questi alpini, a protezione di queste porzioni di città? Non sarebbero più efficaci altrove: a proteggere persone vive, piuttosto che case morte?
Mi è capitato di visitare molte città devastate da guerre ancora da cicatrizzare per intero: Mostar e Sarajevo, per esempio; per la prima volta, qui a l'Aquila, mi trovo invece a vedere cosa possa la Natura, abbinata all'incuria umana.
Perchè la Natura è indifferente e maligna, come sappiamo: ma di certi uomini, non si può forse dire la medesima cosa?
Caro Eretico, le tue parole sono vere e mi hanno molto colpito! Ero a L'Aquila subito dopo il terremoto e forse ho visto gli stessi Alpini che hai visto tu... é vero che ci sono tanti altri posti da "difendere e proteggere" ma é anche vero che forse possono dare a qualcuno un senso di protezione! Casomai mi domando come mai ancora oggi la situazione sia sempre ingessata! Leggo paginate di scandali sul nostro Presidente del Consiglio e su internet il sindaco della cittadina abruzzese che chiede soldi soldi soldi... ma noi glieli già abbiamo dati! Sono tutti bravi a protestare ma gli stessi aquilani a suo tempo hanno reagito ora sta alle forze locali fare qualcosa! Che tristezza per quel popolo "forte e gentile".
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