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venerdì 28 gennaio 2011

La Giornata della Memoria (II): il Museo ebraico a New York

  Il Premio Nobel Elie Wiesel, ebreo, ha più volte detto, con una meravigliosa frase, capace di condensare la tragedia della Shoah: "Durante la Shoah, non tutte le vittime furono ebree, ma tutti gli ebrei furono vittime".
Una frase straordinaria, perchè in grado di fare propria una caratteristica dell'intellettualità ebraica, della migliore intellettualità (Israele è uno dei pochi luoghi al mondo, in cui l'autorevolezza degli scrittori ancora conti: in Italia - tolto Saviano e, in parte, Camilleri -, nessuno conta meno di niente): il non volere assumere il monopolio assoluto della memoria dell'Olocausto.
Visitando meno di un mese fa l'interessantissimo Museo ebraico di New York (davanti ad uno degli ingressi del Central park, nel cuore, quindi, di Manhattan), lo si vede benissimo: basta avere la pazienza di farsi perquisire come ad un aeroporto prima di entrare (!), e di rispondere al mezzo interrogatorio di chi ti vende il biglietto ("da dove viene, perchè è qui?").
Dopo questi passaggi, un affascinante sguardo diacronico sulla storia del mondo ebraico è assicurato. All'interno del Museo, nella sezione dedicata alla Shoah, vale a dire all'annichilimento del popolo ebraico pianificato da Hitler, si puntualizza subito che molti altri gruppi furono massacrati ad Auschwitz e negli altri campi (zingari, omosessuali, testimoni di Geova, antinazisti generici, comunisti,  generici asociali...). Si nota l'attenzione rigorosa, inappuntabile, a che queste categorie vengano ricordate: non era scontato fosse così, non era per nulla ovvio.
Che museo, questo del popolo ebraico: uno di quei luoghi in cui chiunque sia dotato di un minimale interesse per la Storia, dovrebbe tornare per almeno un paio di giorni di fila.O, almeno, starci per tutto il giorno, dall'orario di apertura, a quello di chiusura: concedersi una pausa pranzo, e poi rientrare.
Fra le varie chicche, ne segnalo un paio, giocando parecchio per difetto (nella Milstein family Gallery, c'è anche una stimolante videointervista a Tullia Zevi, scomparsa nei giorni scorsi).
Ad un certo punto, ci si imbatte in un quadro che ha il sapore di casa, o quasi: la Sinagoga di Livorno!
La Sinagoga di Leghorn, per dirla all'americana. Dipinto da tale Solomon Alexander Hart intorno al 1850, vi si ritrae la festa di Simhat Torah, quando l'annuale lettura della Torah è completa, ed inizia quella nuova. Questo Hart ci offre un'immagine idilliaca della cerimonia ebraica (nessuna donna è presente nell'opera); a detta della didascalia, il quadro servì a fornire una visione positiva dell'ebraismo italico in terra d'Inghilterra, pervasa allora - nonostante la presenza dell'anglicanesimo, meno antisemita del cattolicesimo -, da forti sentimenti contro gli ebrei.
Ma forse una delle cose più interessanti è una lapide - molto ben conservata -, di Danzica, in cui si ricorda il sacrificio dei caduti ebrei tedeschi durante la prima guerra mondiale: ebrei che - esattamente come Hitler - caddero per il secondo Reich, tra il 1914 ed il 1918; nel 1939, con Danzica polacca, in vista dell'imminente attacco nazista alla Polonia (1 settembre 1939), gli ebrei locali la misero in salvo negli States, dove è rimasta. La lapide ricorda 56 ebrei tedeschi morti combattendo "furs vaterland": si va da un Baruch, ad un Wolffberg. Credo che lapide più imbarazzante - per il nazismo -, non ci potesse essere: un semplice pezzo di marmo, era capace di smentire le centinaia e centinaia di pagine del Mein Kampf hitleriano...
Raffaele Ascheri

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